Il dibattito sulla riforma dei concorsi pubblici varata nel DL 44 del 1 aprile si fa più serrato.

Il Ministro Brunetta ha difeso la sua riforma affermando, fra l’altro, che per lo sblocco del turn over si dovrebbero assumere 150 mila giovani all’anno. Poi però ha descritto i numerosi giovani, aspiranti concorsisti, che in questi giorni stanno protestando contro le nuove regole di reclutamento, come “giovani impauriti capitanati dai loro cattivi maestri”.

Forse è vero che i giovani sono impauriti, ma non dal farsi giudicare da una commissione, quanto dal vedersi tagliati fuori a causa di una soglia di sbarramento che non permetterà loro nemmeno di arrivare davanti ad una commissione di esame. E i loro “cattivi maestri” siamo noi, che gli abbiamo insegnato che per ottenere qualcosa, che sia un lavoro nel pubblico impiego o un risultato personale, serve studiare e non avere soldi o “le conoscenze giuste”.

Lo dice la Costituzione, lo ha detto la Corte Costituzionale in più occasioni e lo diciamo anche noi adesso: il merito DEVE essere alla base dell’assunzione nel pubblico impiego. La semplificazione non deve trasformarsi in “immeritocrazia”. Esistono strumenti informatici di ultima generazione, sedi dislocate, misure di sicurezza. Esiste un protocollo sui concorsi pubblici. E poi esiste la volontà di valorizzare i titoli e di conferire al servizio precedentemente svolto presso la P.A. (anche con contratti di collaborazione) un punteggio spropositato.

Si pensi a tal proposito che aver lavorato per 6 anni – anche con contratti di consulenza o collaborazione – presso la P.A. è stato valutato, nell’ultimo concorso per 2800 tecnici al Sud, come 60 lauree con lode. I giovani e meno giovani che hanno speso energie e risorse nello studio per i concorsi pubblici hanno il diritto a parteciparvi.

La next generation ha diritto di partecipare al futuro. Anzi, ha diritto ad essere il fururo.